Tiziana Cera Rosco, poetessa e performer italiana, viene dal Parco Nazionale D’Abruzzo, uno dei luoghi più selvatici d’Italia. “Un posto a cui appartengo come si appartiene ad una persona. E ovunque io viva (a Milano ma viaggio molto) è sempre lì che sono”, spiega l’artista.
Da quel posto deriva tutta la sua matrice poetica che ha portato con sé in tutte le espressioni artistiche che ha affrontato tramite il linguaggio e l’immagine. E da quel posto deriva tutta la sua dedizione allo spirito vitale che la consuma.
Quest’anno, Tiziana è venuta in Argentina per la prima volta per rappresentare il suo Paese nel XIII Festival Internazionale di Poesia di Buenos Aires.
Perché hai deciso di dedicarti alla poesia?
“Credo di essermi dedicata alla poesia molto presto. Proprio nei primi contatti con gli animali che nella mia vita sono coincisi con le letture dei testi sacri che ascoltavo in chiesa all’età di 4 anni e mezzo. Poi da grande ho incontrato la filosofia che ha ordinato mentalmente molte confusioni e che mi ha dato una comprensione più oscura delle cose dalle quali mi sentivo determinata”, risponde l’artista.
“Credo che tutto sia coinciso con un linguaggio che non possiamo chiamare linguaggio poetico in senso letterario. Perché per me il linguaggio è la forma di accoppiamento col mondo. Una zona di tensione in cui non si esaurisce nulla ma si tende ad una comprensione”.
Per questo per lei il linguaggio poetico accademicizzato è una grande stortura. Perché la tensione, l’enigma che regge quel linguaggio ha come matrice una fonte oscura o luminosa che è prelinguistica.
Cosa significa la poesia per te?
“Ora che ho 44 anni, non è una cosa che faccio o scrivo. Ma è l’elemento di fondo da cui mi faccio agire come se si fosse aperto un polmone sottovuoto e respirassi a tre polmoni. Rilke diceva ‘con tutti gli occhi la creatura vede l’aperto’. Eccomi, anche nella mia cecità. Non scrivo da molto e questo non mi fa sentire lontana dalla scrittura, ad esempio. È un respiro, complesso, auto eliminante a volte, espansivo in senso più ampio dell’estensione di un testo su una pagina e lo accetto”, spiega Tiziana Cera Rosco.
Dentro di lei è come se lavorasse ad un’unica opera, non ad una poesia e poi un’altra e rifiuta spesso letture della sua produzione di un solo testo come rifiuta letture di una sua foto o scultura fuori dal contesto totale che le esprime.“Ossia un movimento che tende ad arrivare ad un corpo finale (anche se ad esempio uso il mio nella produzione artistica come uso l’io in quella poetica con l’unica certezza di vederlo scomparire). Questa è l’unica cosa che so perché sono mossa da una una domanda sulla vita, da una tensione che potrebbe rompersi o implodere se non la emancipo”.
Hai qualche legame con l’Argentina?
“L’ossessione che mi lega alla figura di Asterione, così come la presenta Borges, che per me ha aperto non solo tutto un programma di sperimentazione sulla figura del Minotauro e che si conclude al festival in Argentina. Ma ha rappresentato la pietra di paragone del rapporto con se stessi e il collo che prestiamo alle relazioni. Quando Borges nella figura di Asterione si chiede ‘come sarà il mio salvatore? Sarà un toro con la testa d’uomo o sarà come me?’, e in virtù di questa domanda non riconosce il suo assassino e si lascia uccidere. Questa cosa mi distrugge e mi commuove ogni volta”.